Accogliere profughi etiopici come counselor
Accoglienza,  Counseling

Il counseling come accoglienza dell’altro

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L’accoglienza non è mai a senso unico

Spesso si pensa che l’accoglienza debba essere un’iniziativa dovuta al padrone di casa e che sia a senso unico. In verità, quando i profughi eritrei sono arrivati nella città di Sesto San Giovanni, selezionati nei campi in Etiopia, all’interno del progetto Corridoi Umanitari, hanno ricambiato ben presto quell’ospitalità, condividendo un pezzo d’Himbaschia e una tazza di tè, con un sorriso.

 

Il senso dell’Accogliere per me

Uno dei valori primi del counseling è l’accoglienza e l’Accogliere ha assunto un altro sapore: ho sentito che la mia responsabilità fosse sempre meno simile ad un mio “dovere“. Questo perché ho sentito che non era più solo una cosa mia, che toccava a me. Si trattava di vedere ed essere vista, ascoltare ed essere ascoltata. Certo le difficoltà legate alla lingua inizialmente hanno facilitato poco la comunicazione, ma l’essere umano non nasce “parlante”: il linguaggio si è arricchito di gesti e suoni spesso divertenti, creando così “sim-patia” nel senso di “provare insieme”.

È così che è nata la relazione.

Profughi Etiopia a Sesto San Giovanni
Profughi Etiopia a Sesto San Giovanni

Costruire Fiducia e Condivisione

Costruita e voluta da entrambe le parti, la relazione è fatta di cose concrete e quotidiane e in mezzo c’è

  • la fiducia come conquista fatta a piccoli passi: il passato non sempre fa sconti sulla sofferenza e il presente ne paga spesso le spese
  • la condivisione anche quando non si ha nulla da condividere… nulla di materiale si intende.

Penso alle tante storie condivise e raccontate durante la lezione di italiano davanti a un mappamondo. Racconti che parlano di abbandoni, dolore (intendo anche quello fisico), paure, ma anche aneddoti felici di chi ce l’ha fatta. Tante emozioni… le tue… le sue…

 

Il rispetto della diversità: i profughi un patrimonio di ricchezza

Rispettare la diversità è vero è più facile da dire che da fare. Noi però i pregiudizi li abbiamo individuati e tirati fuori subito: quegli odori sconosciuti, il modo di fare il caffè servendolo sul pavimento, il mangiare con le mani in un piatto unico.

Ci siamo mai chiesti come una persona che viene da questi paesi e da queste tradizioni guarda noi? Anche le nostre abitudini sono sembrate a loro inutili o assurde, come ad esempio usare il tovagliolo o così tante posate, per non parlare della criptica raccolta differenziata.

Sì, è vero le differenze ci sono e non sono poche, ma è piacevole e arricchente osservare queste persone nei loro rituali. Ed è facile e veloce imparare a rispettarli e sai che non cambieranno quei gesti, quelle abitudini, perché fanno parte della loro cultura, della loro identità, che non possono e non vogliono dimenticare perché senza sarebbero persi.

 

Il progetto dell’Accoglienza come per-corso

Questo progetto io l’ho chiamato per-corso perché i destinatari non sono solo “i nostri ragazzi” (come li chiamiamo tra noi operatori). Qui stiamo imparando tutti e vorrei che questo mio dire non fosse scambiato per retorica, ma per impegno… non facile per molti aspetti: mettersi in gioco davanti a realtà nuove, superare gli stereotipi, mettere da parte i pre-giudizi nostri e loro; la difficoltà della comunicazione non sempre adeguata, che rende faticosa la cooperazione, il tempo visto come “nemico” per il raggiungimento degli obiettivi preposti e tanto altro…

Insomma molta strada si dovrà ancora fare, ma se terremo ben presente il valore dell’ideale che ci ha coinvolti, le difficoltà saranno più sopportabili e molte saranno le soddisfazioni, perché non stiamo camminando da soli.

 

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